Il 6 maggio scorso, il Prof. Giuseppe Valditara, Ministro dell’Istruzione e del Merito, affermava: “Si insegna troppa roba. In terza elementare si va a narrare e a spiegare tutte le specie di dinosauri… Tutto questo, ma a che serve?… È tutto inutile se poi non conosciamo le esperienze più importanti del nostro passato, che ci hanno dato i grandi valori dell’Occidente.”
Queste frasi riprendono il concetto ormai superato di antagonismo tra cultura umanistica e cultura scientifica; mi è sembrato opportuno citarle all’inizio del mio discorso, per sottolineare che, al contrario, la nostra cultura si nutre della continua osmosi tra scienze, lettere ed arti: un’idea che si fa dichiarazione esplicita nella denominazione di questa Accademia.
La Biologia compare in programmi televisivi di divulgazione e negli inserti dei quotidiani; i risultati di ricerche in diversi settori della Biologia vengono citati nei notiziari e l’aggettivo “biologico” ricorre fin troppo spesso associato a moltissimi prodotti commerciali, dagli alimenti ai cosmetici: temo tuttavia che negli ultimi decenni non siano cresciute nel pubblico le conoscenze dei fenomeni biologici e le riflessioni in merito ad essi, se si eccettuano, solo recentemente, quelle relative agli ecosistemi e da qualche tempo, ma con sempre maggior enfasi, gli entusiasmi e le paure per la Genetica.
In effetti, furono prima la Genetica e successivamente la Genomica ad imprimere una significativa accelerazione nel progresso delle conoscenze biologiche e, al tempo stesso, a determinarne ricadute rilevanti sulla società contemporanea.
Se il lavoro di Watson e Crick del 1953 viene giustamente ricordato come inizio di una nuova era in Biologia, ad avviare un enorme e rapido progresso delle conoscenze. furono, nel decennio successivo, la decifrazione del codice genetico e la dimostrazione del ruolo funzionale dei geni2, fino a giungere, nel 1972, alla prima sintesi artificiale di un gene.
Negli stessi anni si scoprì che alcuni enzimi batterici potevano tagliare il DNA di un organismo in punti specifici e che era possibile inserire frammenti di DNA così ottenuti nel DNA di un altro organismo, utilizzando come vettori sequenze di DNA batterico opportunamente modificate.
Da una costola della neonata Genetica molecolare nacque l’Ingegneria genetica, che rese possibili produzioni biotecnologiche di farmaci importanti, come ad esempio l’insulina, e di vegetali di interesse agroalimentare, geneticamente modificati.
L’opinione pubblica non ebbe modo di seguire in dettaglio il progresso di queste conoscenze ed applicazioni; vi fu però una grande mobilitazione riguardo a potenziali rischi per la salute, legati al consumo di cibi transgenici, cui seguirono in Italia provvedimenti legislativi estremamente restrittivi.
Oggi la nuova tecnica del “genetic editing” consente di modificare il DNA di un organismo mediante un meccanismo efficiente di “taglia e incolla” molecolare, senza impiegare vettori; non solo essa è universalmente utilizzata in ambito biotecnologico, ma si è rivelata molto promettente anche per terapie geniche mirate, basate sulla modificazione di cellule staminali somatiche del paziente.
L’impiego del “genetic editing” ha rimosso totalmente i rischi di contaminazione con DNA batterico nei prodotti transgenici, tuttavia sono rimaste in vigore le norme restrittive introdotte a suo tempo, mentre nessuno si preoccupa più delle enormi vastità di coltivazioni transgeniche presenti in diversi paesi extraeuropei e dei percorsi di tali prodotti nelle filiere commerciali.
Rimane presente nell’opinione pubblica una diffusa quanto imprecisata paura per le “manipolazioni biologiche”. Essa si è trasformata in vera e propria ostilità durante la pandemia da SARS-CoV2, sia per il sospetto che si trattasse di un virus prodotto da ricerche di interesse militare, sia, successivamente, per la constatazione che i vaccini erano frutto di sofisticate operazioni biotecnologiche. Tale ostilità si è saldata con quella, preesistente, nei riguardi delle vaccinazioni, ed ha raggiunto, incredibilmente, una dimensione politica non trascurabile per consistenza ed aggressività.
È interessante notare che, sorprendentemente, non ci siano mai state ostilità nei confronti del sequenziamento dell’intero genoma umano che pure riguardava uno dei tabù dell’immaginario collettivo. Eppure, il fatto che un progetto di circa 3 miliardi di dollari fosse lanciato dal Department of Energy degli Stati Uniti, quello del progetto Manhattan per intenderci, avrebbe potuto far sospettare che non fosse motivato soltanto da genuino desiderio di conoscenza, ma da prospettive di dominio brevettuale e di possibili applicazioni in diversi campi, incluso quello militare.
Poco dopo il lancio del progetto genoma umano, grazie a finanziamenti dell’Unione Europea, un consorzio di laboratori, anche italiani, decise di sequenziare l’intero genoma del lievito. Si trattava di una scelta chiaramente strategica, perché il lievito è l’organismo fondamentale per la produzione del pane, del vino e della birra. L’impresa si concluse con successo nel 1996 e l’intera sequenza del DNA genomico del lievito fu subito pubblicata in internet per consentirne la consultazione gratuita ed illimitata, escludendo così a priori la brevettabilità di tali dati.
Fu un precedente molto importante, perché nell’ultima fase del progetto Genoma umano, quando si trattò di produrne il database accessibile via internet, l’impresa privata Celera Genomics, entrò in competizione con il Consorzio pubblico internazionale guidato dagli Stati Uniti. Se il database fosse stato prodotto da una azienda privata, questa ne avrebbe avuto il diritto di proprietà e di gestione ed il database sarebbe stato accessibile solo limitatamente ed a pagamento. Fortunatamente, l’impegno di una trentina di informatici dell’Università di California Santa Cruz, guidati da Jim Kent, riuscì a battere sul tempo il concorrente privato e dobbiamo soltanto a loro l’accesso perenne, gratuito ed illimitato ai dati del genoma umano.
L’articolo scientifico relativo al sequenziamento del genoma umano condotto dal Consorzio internazionale guidato dagli Stati Uniti fu pubblicato nel febbraio 2001 in un numero speciale della rivista Nature, contemporaneamente a quello di Celera Genomics sulla rivista Science, organo ufficiale dell’American Association for the Advancement of Science. Dopo la pubblicazione dei dati del genoma del lievito Saccharomyces cerevisiae nel 1996, nell’arco di un decennio vennero pubblicati i dati dei genomi di diversi organismi modello quello del nematode Caenorabditis elegans nel 1998 e nel 2000 quelli di Drosophila melanogaster (moscerino della frutta) e del vegetale Arabidopsis thaliana (Arabetta comune); seguirono poi quello di Mus musculus (topo) nel 2002, di Pan troglodytes (scimpanzé) e di Oryza sativa (riso) nel 2005 ed infine quello de panda (Ailuropoda melanoleuca) nel 2008; successivamente, il progresso nelle tecniche di sequenziamento rese disponibili le sequenze genomiche di molti altri organismi, sequenze ora liberamente accessibili in internet. Ciò consente di procedere celermente a comparazioni tra genomi diversi ed a confronti tra sequenze di DNA comunque ottenute e quelle dei genomi di riferimento.
Il confronto fra genomi è lo strumento più idoneo e più preciso per ricostruire la storia evolutiva di una data specie, talvolta con risultati inattesi. Per esempio, confrontando le sequenze di DNA di Homo neanderthalensis con quelle del DNA umano attuale, non solo è stata confermata l’appartenenza dei neandertaliani al genere Homo, ma si è scoperto che un 3-4 % del nostro genoma è costituito da sequenze neandertaliane, testimonianza di ancestrali e feconde ibridazioni tra le due specie.
Con lo stesso metodo, risalendo le filogenesi si è riusciti a definire le parentele biologiche di Homo sapiens con gli altri primati; si è perfino arrivati a delineare le probabili caratteristiche dell’antenato comune primigenio di tutti gli organismi attuali: un microorganismo simile ad un batterio, verosimilmente presente in ambiente vulcanico privo di ossigeno oltre 4 miliardi di anni fa, ossia mezzo miliardo di anni dopo la formazione del nostro pianeta. Oggi, mezzo secolo dopo la pubblicazione della teoria sintetica dell’evoluzione biologica, le conoscenze acquisite dalle ricerche in diversi campi, e soprattutto quelle recenti della genomica comparata, confermano la validità dell’affermazione fatta a suo tempo da Theodosius Dobzhansky: “L’evoluzione rappresenta la base su cui si fonda e da cui oggi non può prescindere qualsiasi ricerca biologica”.
Nella seconda metà dell’Ottocento, le traduzioni di Giovanni Canestrini, Professore di Zoologia nell’Università di Padova dal 1869 e socio di questa Accademia, avevano fatto conoscere in Italia le opere di Darwin le sue idee riguardo l’evoluzione degli organismi trovarono fiera opposizione in Niccolò Tommaseo e nel mondo cattolico; in particolare la rivista “Civiltà Cattolica” attaccò con durezza lo scrittore Antonio Fogazzaro che aveva timidamente prospettato una possibile compatibilità della teoria evoluzionistica con la dottrina cattolica. L’ ostilità nei riguardi della teoria Darwiniana riverberò su Giovanni Canestrini anche dopo la sua morte, con una damnatio memoriae che oscurò ingiustamente i suoi grandi meriti scientifici.
Sorprende che permangano ancora oggi a livello culturale forti resistenze alla teoria dell’evoluzione biologica. La teoria Darwiniana si proponeva come possibile spiegazione della trasformazione dei viventi nel corso della storia biologica del nostro pianeta; è ormai chiaro che essa risultò inaccettabile non solo perché in contrasto con la narrazione biblica ma soprattutto perché suggeriva l’esistenza di una tendenza al cambiamento, intrinseca nella realtà naturale.
Eppure, benché ormai ne siano stati chiariti i meccanismi, si ha difficoltà ad ammettere l’esistenza di un processo autonomo di lenta, ma continua, modificazione delle popolazioni degli organismi e delle specie, mentre si accettano senza problemi la naturale evoluzione della crosta terreste e persino delle galassie.
In Italia, nei primi anni 2000, dopo la vittoria della destra alle elezioni politiche si riaccese l’ostilità contro l’evoluzionismo: in alcuni casi prendendo spunto dalle posizioni dei neo-conservatori statunitensi, in altri invece esplicitando una profonda antipatia per la teoria dell’evoluzione, con motivazioni squisitamente politiche.
Esemplare fu, nel 2003, fu l’affermazione di Pietro Cerullo, ex parlamentare di Alleanza Nazionale, organizzatore a Milano di un convegno anti-evoluzionista: “la teoria di Darwin è funzionale all’egemonia della sinistra. È nata quando in Europa dominava la cultura del positivismo, che è l’anticamera del marxismo”.
Coerentemente, l’anno successivo il ministro della Pubblica Istruzione Letizia Moratti emanò una circolare che fece scomparire dalla scuola dell’obbligo la teoria darwiniana dell’evoluzione biologica.
Posizioni polemiche di ben altro livello intellettuale c’erano state nel 1970, dopo la pubblicazione del libro “Il caso e la necessità” di Jacques Monod, che, mentre negava ogni finalità nella Natura, affermava che ognuno, nella sua unicità e libertà, possa egualmente dare un senso ed un fine alla propria esistenza.
L’odierna ostilità per la teoria darwiniana non è molto diversa da quella della società vittoriana di fine Ottocento e purtroppo, come allora, nonostante la negazione dell’evoluzionismo, i concetti di lotta per l’esistenza e di sopravvivenza del più adatto, ormai entrati nel lessico, continuano subdolamente a giustificare la sopraffazione del debole da parte del più forte. Va inoltre sottolineato che. nella vulgata, al concetto di evoluzione viene costantemente associato il finalismo; anzi, mi spingerei a dire che nella cultura di massa non solo l’evoluzione, ma anche le spiegazioni di altri fenomeni naturali, sono intrise di quello che è stato definito “finalismo antropocentrico”.
Mentre ormai comincia a farsi strada la consapevolezza che siamo parte di un ecosistema globale in continua trasformazione, persiste ancora, in larga misura e veicolata dai media, la personificazione della Natura: ostile, che si ribella, ma che l’uomo è sempre in grado di dominare.
Qualche anno fa Helga Nowotny, Presidente dell’European Research Council, in una conferenza all’ Accademia nazionale dei Lincei sottolineava questo paradosso: “…una Scienza post-genomica in una società che ancora non padroneggia i concetti fondamentali della Genetica…”.
Tra tutte le incongruenze trovo particolarmente irritante la pervasiva affermazione: “Ce l’ha nel suo DNA”, a legittimazione di qualsiasi virtù o difetto individuale. Si tratta di una locuzione usata forse per apparire aggiornati sui progressi scientifici, ma in realtà rivela l’esistenza di una pericolosa semplificazione: il determinismo genetico.
Non si tratta di un concetto nuovo, anzi, se mi è consentito un gioco di parole, la Genetica umana è nata con questa tara ereditaria
William Bateson, entusiasta della regolare trasmissione dei caratteri attraverso le generazioni, nelle ultime pagine del suo fondamentale volume “Mendel’s Principles of Heredity”, pubblicato nel 1909, aggiunse nel sottocapitolo “Sociological applications” queste affermazioni: “Il risultato della ricerca genetica indica che la nostra società, se lo desidera, può controllare la sua composizione molto più facilmente di quanto si potesse ritenere possibile” e, più avanti: “ Si possono adottare provvedimenti per eliminare le stirpi ritenute inadatte e gli elementi indesiderabili nella popolazione, oppure incoraggiare la persistenza di elementi ritenuti desiderabili”.
Nei primi decenni del secolo scorso, l’innesto dei metodi e dei concetti della Genetica mendeliana sul fin troppo fertile substrato eugenista di fine Ottocento diede inizio, sia negli Stati Uniti che in Germania, ad un lungo periodo di persecuzione dei soggetti ritenuti “geneticamente tarati” o “geneticamente destinati a delinquere”.
Anche in Italia, Paolo Enriques, Professore di Zoologia a Padova e valente scienziato, nel suo volume “Genetica Umana” del 1924 parlava senza remore di “soppressione” delle “stirpi molto perverse” e delle “stirpi dei gravi malati costituzionali” prospettando la sterilizzazione coatta dei delinquenti e quella volontaria nel caso di gravi malattie costituzionali.
Conosciamo tutti le atroci conseguenze della Rassenhygiene: la “Legge per la prevenzione di nuove generazioni affette da malattie ereditarie”, approvata nel 1933 in Germania dal governo nazionalsocialista e la successiva “Legge per la protezione del sangue e dell’onore tedesco” del 1935, autorizzarono sterilizzazioni di uomini e donne, eliminazioni di disabili e, successivamente, lo sterminio sistematico ed organizzato di milioni di persone, tra le quali sei milioni di ebrei.
Per inciso, i genetisti Eugen Fisher, Otmar F. von Verschuer, e Fritz G.K. Lenz, che avevano dato un contributo sostanziale alla politica di igiene razziale del nazismo, sopravvissero al crollo del regime e non furono mai perseguiti dalla Giustizia.
In Italia il governo fascista promulgò le leggi razziali del 1937 sui matrimoni misti e del 1938 contro i cittadini italiani di religione ebraica; il successivo governo fascista della Repubblica di Salò non solo recepì le leggi razziali, ma collaborò attivamente con le SS all’arresto ed alla deportazione in Germania di molti ebrei italiani, destinati ad una morte orribile.
Negli anni’50 la Genetica aveva preso le distanze dal rozzo determinismo, affermando che il fenotipo è il risultato dell’interazione tra “Nature and Nurture”, ossia tra determinanti genetici ed il loro ambiente. Sfortunatamente, i concetti di “penetranza” ed “espressività” dei geni, che in qualche modo segnalavano la fallacia del semplicistico determinismo, sparirono dai libri di testo di Genetica degli anni ’70 perché ritenuti concetti ormai acquisiti; in più, il fatto che la base materiale dell’eredità fosse regolarmente trasmessa nel corso delle generazioni fu recepita al di fuori dell’ambiente scientifico come fondamento di un rinascente determinismo.
Nel 2015 uno studio effettuato in Finlandia su un gruppo selezionato di reclusi per crimini molto violenti riscontrò tra loro la presenza di varianti genetiche che causano una ridotta attività dell’enzima Monoammino ossidasi A; questa riduzione induce nel soggetto sotto l’effetto di alcool o di anfetaminici una iperattività da dopamina, verosimilmente implicata in comportamenti molto violenti. Nonostante la cautela espressa dagli stessi autori dello studio, i media, anche in Italia, annunciarono che era stato scoperto il “gene della criminalità”. Oggi molti purtroppo ritengono che sia ormai dimostrata l’origine genetica della violenza criminale mentre, al contrario, per il momento è noto e dimostrato soltanto il ruolo fondamentale di concomitanti fattori ambientali.
Analogamente, viene data per scontata l’ereditarietà dei comportamenti ed il problema delle devianze viene spostato dal piano sociale a quello puramente biologico, ignorando che le persone non sono soltanto espressione dei loro geni ma soprattutto della loro storia individuale.
Oggi le tecniche di analisi sono in grado di identificare un individuo in base a sequenze del suo DNA; il metodo è largamente usato in medicina forense per identificare resti umani, per raccogliere indizi sulla presenza di un dato individuo sul luogo di un delitto e per l’esclusione di paternità. Questo tipo di indagine si presta anche all’ analisi delle famiglie: da campioni di DNA individuali è possibile stabilirne le relazioni di parentela e rivelare eventuali casi di non corrispondenza tra paternità biologica e paternità legale; diverse aziende private, anche in Italia, offrono a pagamento questo tipo di indagini a partire da campioni raccolti dall’interessato; nonostante l’esito di tali analisi non sia utilizzabile in un procedimento legale, non è infrequente la raccolta di campioni all’insaputa del coniuge.
Stranamente, l’ascendenza biologica viene spesso cercata anche da figli adottivi, anteponendo il riconoscimento della paternità o maternità biologica alle relazioni affettive con i genitori legittimi; è forse un sintomo di quanto il malefico concetto del determinismo genetico sia entrato nella cultura di massa.
L’enfasi posta sulla eredità biologica emerge nel diritto di cittadinanza jure sanguinis per stranieri discendenti di emigrati italiani e non residenti in Italia, chiaro richiamo all’idea tribale di appartenenza ad una stirpe.
Negli ultimi decenni il tumultuoso sviluppo delle conoscenze, accelerato dalle metodologie genetiche e genomiche, ha investito la biologia cellulare e successivamente la fisiologia per giungere infine alle neuroscienze, indirizzate all’esplorazione delle basi biochimiche e cellulari dell’attività cognitiva e della coscienza.
Malauguratamente, i risultati di queste indagini, che affrontano argomenti di estrema complessità, vengono divulgati senza far comprendere che si tratta di raggiungimenti in itinere e perciò suscettibili di correzioni o di smentite.
Il riduzionismo, tanto utile nelle fasi sperimentali del procedimento scientifico, risulta pericolosamente fallace quando offre spiegazioni di fenomeni complessi ed ancor più quando propone soluzioni semplici a problemi di elevata complessità. A livello di comunicazione di massa il riduzionismo si esplicita nella esasperata ricerca della semplificazione, confondendo “complesso” con “complicato”.
Le tecnologie oggi disponibili per la ricerca biologica non sono soltanto un potentissimo strumento di indagine, ma nelle società tecnologicamente avanzate sono diventate un potenziale strumento di dominio scientifico, economico e militare. Non può sfuggire che sia l’indirizzo delle ricerche in questo settore così cruciale, sia l’utilizzazione delle ricadute in senso industriale e commerciale sono, e saranno sempre più fortemente, condizionate da decisioni strategiche in capo alla politica.
Come insegnano gli avvenimenti degli anni ’30 in Germania, l’utilizzazione malefica dei ritrovati della scienza non dipende soltanto da precise decisioni governative ma, piuttosto e soprattutto, dal clima politico e sociale che ad esse sottende; perciò, le uniche garanzie contro i pericoli che molti intravvedono e paventano per il futuro della Biologia e delle sue applicazioni risiedono nella solida maturità democratica della società civile.
Oggi tutto sembra essere governato dalle leggi del cosiddetto “libero mercato”, proposte come valore supremo di riferimento della nostra società ed al tempo stesso imposte crudelmente ai Paesi in via di sviluppo. Tali leggi stanno facendo piazza pulita di tabù sacrosanti e di remore morali.
Noi, abitanti alla periferia dell’impero, siamo rimasti folgorati dal nuovo e malefico Verbo ed abbiamo dimenticato i principi sui quali, dopo immani sofferenze e dolorosissimi lutti, si ricostituì nel nostro Paese una società regolata da una Costituzione fondata sull’ eguaglianza dei diritti degli individui e sulla solidarietà.
Le conseguenze non si sono fatte attendere: hanno immediatamente e rigogliosamente germogliato le male piante dell’egoismo, dell’intolleranza e del razzismo. L’ idolatria del profitto, spesso basato sullo sfruttamento disumano dei soggetti più deboli, ha fatto risorgere molto rapidamente l’idea di un presunto diritto superiore rispetto a quelli degli “altri”, spesso stranieri immigrati, considerati senza ragione potenziali nemici e talvolta trattati con crudeltà esibita senza pudore.
Di fronte a milioni di uomini che reclamano il loro diritto a sopravvivere, che cosa sapranno produrre il nostro sapere e la nostra scienza biologica? Costosissimi organi di ricambio per pochi privilegiati, illusoria speranza di sopravvivenza oltre i limiti biologici, o piuttosto armi biologiche per sterminare selettivamente intere popolazioni qualora il mondo diventasse troppo popolato o qualche Paese volesse ribellarsi alle inique regole del gioco?
Mentre siamo angosciati testimoni di palesi ingiustizie, di continue ed eclatanti violazioni del diritto internazionale, di stragi di civili innocenti e degli orrori delle guerre, fortunatamente si intravvedono nella nostra società segni di rinnovata coscienza e di impegno civile ed è per questo che desidero chiudere il mio discorso con le parole del poeta turco Nazim Hikmet: “… la speranza, la speranza, la speranza è nell’uomo”.
Gian Antonio Danieli
Già membro del Consiglio scientifico della Fondazione Venezia per la Pace