Di Stella Guizzardi
Nel ciclo di conferenze “Testimonies: Migration, years after”, che sono state ospitate all’interno di The Home of The Human Safety Net, il primo panel ha affrontato il tema di After Migration, perfettamente in linea con il filo conduttore dell’intera giornata
Monique Villa di Art for Action ha moderato l’incontro al quale hanno partecipato Awmaima Amrayaf, avvocata libica residente nel Regno Unito, Rahel Saya, studentessa e giornalista afghana residente in Italia, e Mustafa Mohammad, imprenditore sociale siriano attualmente residente in Grecia.
“Che cosa succede dopo la migrazione?” Questa è stata la domanda chiave del panel.
I tre ospiti hanno raccontato le proprie storie personali, partendo da Awmaima Amrayaf, arrivata nel Regno Unito come candidata ad un dottorato, dove è poi rimasta per diverso tempo. Amrayaf ha fatto domanda d’asilo in Gran Bretagna come rifugiata politica, in quanto la Libia per lei, come attivista ed esperta di diritti umani, non era più un paese sicuro. Quello che è emerso dal suo racconto, è una grande frustrazione: nonostante il dottorato e l’importante esperienza lavorativa pregressa infatti, il razzismo e la discriminazione nel Regno Unito le impedivano di trovare un lavoro adatto al suo livello professionale. Il suo racconto, infatti, è costellato da momenti di frustrazione, burocrazia incomprensiva, barriere artificiali che venivano erette per bloccare il percorso suo, e di tante altre persone, con l’unico fine di rendere più difficile l’accesso ad un mondo a cui non si vuole che appartengano.
La storia di Amrayaf ha dei punti in comune con quella di Mustafa Mohammad, entrambi sperimentano la burocrazia come un’arma nei loro confronti, la necessità di documenti per avanzare ad ogni step del loro percorso e l’impossibilità di reperirli, in un circolo vizioso costruito per essere impraticabile.
Mohammad, cresciuto in una piccola cittadina costiera siriana, da bambino sognava di fare il capitano di nave, ed è proprio in questa direzione che inizia i suoi studi e primi lavoretti, fino a quando si trova catapultato nell’esercito siriano, senza possibilità di scelta. Coglie al volo l’opportunità che gli si presenta quando una pallottola gli ferisce una gamba, sfruttando il congedo per cercare la libertà. Questa situazione lo porta, prima brevemente in Turchia, poi in Grecia, dove trascorre più di un anno in carcere, proprio a causa dei documenti da capitano di nave, che lo inquadravano come sospettato scafista. Una volta libero, quello che spinge Mohammad ad andare avanti, lui afferma essere “la rabbia, rabbia “contro quello che chiamano “il sistema”, contro la burocrazia e l’indifferenza”.
Nelle due testimonianze il fil rouge è quello della rabbia contro il sistema, un sistema che non viene percepito come fallato, ma costruito appositamente per tenere fuori le persone che non vuole integrare. I due intervenienti hanno sottolineato che i rifugiati, dopo la migrazione, non hanno solo bisogni, ma anche potenzialità, che in un sistema che è loro nemico, non possono esprimere. Per cambiare la vita delle persone migranti, non è solo questione di soldi e burocrazia, quello che serve davvero al giorno d’oggi, ha sottolineato Mohammad, sono le voci e le arti che trasmettono messaggi, invitando in questo modo le persone presenti a prendere quello che credono e portarlo fuori, per non dimenticare e non ignorare, solo così il sistema può cambiare.