Nel pomeriggio di martedì 26 maggio salendo sui mezzi pubblici, entrando al bar o semplicemente aprendo i social sono stato assalito da un dubbio. Non è che gli italiani hanno smesso di essere un popolo di commissari tecnici e sono diventati dei fini giuristi e degli esperti in giustizia sportiva? La notizia della sentenza sul caso Acerbi era sulla bocca di tutti. La decisione di non sanzionare il difensore dell’Inter poiché secondo il giudice sportivo non è stato raggiunto “il livello minimo di ragionevole certezza circa il contenuto sicuramente discriminatorio dell’offesa recata” è stata tanto celebrata quanto criticata da un pubblico, quello degli amanti del pallone, che troppo spesso ha finito per schierarsi secondo la propria fede calcistica. Eppure, malgrado l’eco mediatica che ha avuto questa vicenda, l’impressione è che si sia trattato dell’ennesima occasione persa.
Non mi interessa qui entrare nei meandri di una sentenza, che al netto di linguaggio da azzeccagarbugli, non poteva fare altro che constatare l’assenza di prove certe, e nemmeno colpevolizzare Francesco Acerbi per la sua probabile ma non provabile esternazione razzista nei confronti di Juan Jesus lo scorso 17 marzo a San Siro (difficile pensare, data la dinamica, che il difensore del Napoli si sia inventato tutto). Mi sembra invece più rilevante riflettere sulla copertura mediatica della vicenda che per molti versi si è concentrata su Acerbi, silenziando Juan Jesus. Se per certi versi ciò è comprensibile in virtù del fatto che da un lato il difensore del Napoli, che prontamente aveva denunciato all’arbitro l’insulto razzista subito, aveva poi chiuso l’incidente accettando le scuse del collega dell’Inter e dichiarando ai microfoni delle televisioni che erano state “cose di campo”, mentre dall’altro lato Acerbi il giorno seguente a favor di telecamere aveva riaperto la vicenda sostenendo di essere stato frainteso e di non aver mai detto nulla di razzista al suo collega brasiliano. Allo stesso tempo è quantomeno paradossale constatare che in molti ambienti l’accusa di razzismo ad Acerbi fosse percepita come qualche cosa di più grave dell’aver di un’offesa razzista subita.
Addirittura si è dovuto leggere su «La Gazzetta dello Sport» un articolo intriso di paternalismo e pregiudizi in cui Giancarlo Dotto (peraltro non nuovo a commenti di questo genere) “spiegava” a Juan Jesus gli “errori” che aveva commesso asserendo parallelamente che Acerbi, nel caso avesse effettivamente offeso con epiteti razzisti Juan Jesus sarebbe stato “tutt’altro che un bravo ragazzo”.
Per fortuna, rispetto al passato, esistono i social network e Juan Jesus ha potuto esprimere il suo pensiero. Attraverso il suo profilo Instagram prima ha smontato la tesi di Acerbi e poi si è nuovamente espresso, in un messaggio congiunto con il Napoli, a seguito della sentenza. Però al di là di questo prezioso canale di comunicazione il dibattito pubblico è stato dominato da addetti ai lavori che faticano a spogliarsi del loro “white privilege” e in cui la voce di Juan Jesus è sostanzialmente sparite. Del resto se davvero si vuole provare a combattere il razzismo è necessario cominciare a dare più voce a chi è discriminato. Fra le poche ma significative eccezioni segnalo la bella intervista che su “Avvenire” Massimiliano Castellani ha fatto a Omar Daffe, portiere che quando giocava nell’Agazzanese aveva lasciato il campo assieme ai compagni di squadra dopo aver ricevuto offese razziste subendo poi l’onta della sconfitta a tavolino e del razzismo istituzionale.
L’occasione persa quindi non è la mancata squalifica di Acerbi, che non avrebbe cambiato le cose, ma l’assenza di un significativo dibattito sul razzismo presente in Italia dentro e, soprattutto, fuori i campi da calcio. Certo, il piccato comunicato del Napoli con cui ha fatto sapere che “non aderirà più a iniziative di mera facciata delle istituzioni calcistiche contro il razzismo e le discriminazioni” ha il merito di strappare un velo di ipocrisia da una certa retorica istituzionale vuota, tuttavia la vera priorità della lotta al razzismo, non può limitarsi all’indignazione, ma deve lavorare affinché chi il razzismo lo vive quotidianamente sulla propria pelle abbia una voce che vada al di là di quella dell’essere “vittima”. E, per quanto possa sembrare paradossale, lo sport è uno spazio in cui le barriere razziste che ancora caratterizzano la nostra società sono molto più basse rispetto ad altre categorie e professioni.
Nicola Sbetti
(Docente a contratto in Storia dell’educazione fisica e dello sport e di Sport and International Politics in Europe presso l’Università di Bologna)
La foto di copertina è di Andrea Pattaro, quella interna del profilo instagram di Juan Jesus.