E’ stato pubblicato il quarto Quaderno della Collana a cura del Prof. Giovanni Bulian dal titolo “Il riflesso del tempo. Strategie della memoria nei contesti di conflitto e di pace”.
Di seguito l’INTRODUZIONE del Quaderno a cura di Giovanni Bulian
In questo volume si tenterà di rispondere all’invito della Fondazione Venezia per la Ricerca sulla Pace a intraprendere un percorso di riflessioni sulle pratiche di costruzione, selezione e trasmissione della memoria e sulla rispondenza o meno di tali pratiche a fini di conservazione della pace. In particolare, questa raccolta di saggi si caratterizza come un percorso antropologico ed etnografico su quella memoria elaborata in ambienti in cui si manifestano differenti fenomeni di conflitto e post-conflitto: dalle pratiche di controllo e gestione delle micro-tensioni sociali che hanno costituito il tessuto economico di una comunità rurale, e rievocate attraverso specifiche forme di costruzione della memoria, alle strategie della memoria praticate in un contesto diasporico attraverso la gestione di cerimonie commemorative e l’uso della realtà virtuale, fino alle pratiche coercitive di gestione della memoria elaborate in un contesto sociale imbevuto di violenza politica.
Se da un lato il volume non intende contribuire, almeno non direttamente, all’analisi antropologica delle modalità di rappresentazione dei conflitti e delle pratiche di violenza nella contemporaneità, dall’altro esso intende invece approfondire la capacità di plasmare la memoria in ambienti caratterizzati da instabilità politica, marginalità geografica, oppure da asimmetrie economiche e politiche interne, in cui si manifestano o si sono manifestati fenomeni di conflitto. Proprio per l’estrema duttilità culturale di questi contesti, i saggi etnografici hanno lo scopo di contribuire allo studio del complesso intreccio fra memoria e narrazione, da cui emerge un fitto reticolo di pratiche culturali che contestualizzano la memoria come un processo critico di selezione culturale del tempo e della storia, attraverso cui si istituiscono un posizionamento e una distanza temporale nel processo di trasmissione del ricordo. Nell’ambito delle scienze sociali, la memoria viene generalmente intesa come una condizione dell’esperienza pratica e cognitiva, che agisce lungo due dimensioni: quella spaziale, in cui la produzione culturale del ricordo lega persone, gruppi o istituzioni in una sfera di significati socialmente condivisi, quando non sono forzatamente imposti; quella temporale, in cui le pratiche di narrazione della memoria possono essere soggette a interventi di oblio selettivo, di vaglio e anche d’invenzione retrospettiva del passato.
In ogni capitolo è racchiuso uno sforzo interpretativo che tenta di avanzare domande circa la criticità della trasmissione del ricordo, scavando nel vivo della trasformazione storica nella quale la memoria e l’oblio rimandano a una dimensione che non ha soltanto connotazioni binarie, ma soprattutto sfumate. Queste ultime osservazioni mettono in luce come la gestione della memoria in aree di guerra o in ambienti in profonda trasformazione sia una pratica sociale di ambigua collocazione: culturalmente prevista, sia in contesti di conflitto che di pace, viene strumentalizzata come dispositivo creativo di inclusione ed esclusione del passato.
Sulla base di queste premesse, il libro si apre con un saggio introduttivo di Gianluca Ligi, il quale, sulla base delle principali acquisizioni in antropologia culturale secondo le quali la memoria è un processo costantemente creativo e non conservativo, illustra i nessi profondi fra l’atto del ricordare e l’atto del dimenticare: elementi speculari indissolubili di una stessa dinamica che costruisce la memoria a partire da continue selezioni d’oblio. Il saggio descrive questo processo focalizzandosi sulla pratica che lo rende possibile: la narrazione. Neuroscienze, psicologia sociale, antropologia, e molte altre discipline, hanno da tempo concentrato l’attenzione sul processo del narrare come costitutivo del cervello umano (dal punto di vista psichico) e delle relazioni sociali (dal punto di vista delle caratteristiche espressive e semiotiche della cultura). I vissuti individuali (ma anche quelli sociali, collettivi, comunitari), soprattutto in casi di sofferenza, disagio, emergenze di massa, conflitti, e così via, diventano esperienza soltanto mediante la narrazione, ovvero soltanto a partire dalla capacità che un soggetto (o gruppo sociale) ha di poterli raccontare. La costruzione di senso dell’esperienza del male si compie soltanto nel momento in cui al vissuto può essere imposta una trama, una articolazione di significati. La narrazione – qualunque atto narrativo (individuale, sociale, storico, istituzionalizzato, ecc.) – è il processo mediante il quale si dà ogni forma possibile di memoria. Nella capacità dell’espressione narrativa del vissuto il soggetto (anche implicitamente) seleziona fra ricordo e oblio la sequenza di senso che sostiene la memoria dei fatti passati. Attraverso alcuni esempi etnografici e storici di narrazione – in particolare in contesti traumatici connessi a violenza e a conflitti – il saggio intende mostrare il valore imprescindibile della narrazione come atto terapeutico per la costruzione di una memoria individuale risolta e ricomposta, e nello stesso tempo il valore etico e politico di alcune narrazioni individuali che, diventando pubbliche, contribuiscono al rafforzamento della memoria collettiva (ad esempio, Solženicyn e Primo Levi).
Il saggio successivo è il primo contributo etnografico del volume, in cui sono prese in esame le pratiche di costruzione della memoria incentrate sulla gestione delle risorse idriche di Kamishima, una comunità isolana di pescatori del Giappone. Il saggio di Giovanni Bulian illustra, in primo luogo, le tensioni sociali interne alla comunità, scaturite dalle dispute sulla gestione delle risorse idriche locali, che sono state parzialmente offuscate e, in certi casi, obliate nelle testimonianze di alcuni anziani. La comunità di Kamishima ha condiviso la stessa crisi idrica di molte altre isole remote del Giappone, prima degli interventi del governo finalizzati a garantire un approvvigionamento idrico regolare alle comunità locali. Nel tentativo di raggiungere un equilibrio di autogestione e di autosufficienza, gli abitanti del villaggio hanno attuato in passato una serie di iniziative volte a garantire un’economia efficiente in termini di utilizzo delle risorse idriche locali, sulla base di sistemi di regolazione interni alla comunità. Le esperienze di vita racchiuse nei ricordi degli abitanti e dei loro “silenzi del ricordo”, a testimonianza della carica emotiva racchiusa nelle esperienze di vita spesso dolorose o imbarazzanti da rievocare, costituiscono un esempio di performance narrativa incentrata sul valore culturale dell’acqua, che viene a costituire l’identità stessa di questa comunità. Per chiarire meglio la centralità dell’acqua nei processi di costruzione sociale del passato di questa comunità, il saggio prende in esame l’azione combinata di luoghi, oggetti e pratiche cerimoniali, che costruisce il mondo della vita comunitaria in un orizzonte di senso condiviso. In particolare, verrà preso in esame, il pozzo, una “figura di ricordo” che svolge un ruolo attivo all’interno della tradizione folklorica locale. Come verrà evidenziato, la simbologia del pozzo è individuabile in alcune cerimonie religiose del periodo di Capodanno e in una serie di leggende in cui vengono narrate in chiave mitopoietica le ragioni storiche della non potabilità dell’acqua di un pozzo.
Rimanendo ancora in area asiatica, il tema dei luoghi della memoria è presente anche nel saggio di Cristiana Natali, la quale mette in luce le strategie della memoria delle LTTE (Liberation Tigers of Tamil Eelam ), un gruppo separatista che ha combattuto nello Sri Lanka dal 1976 fino al 2009, anno della definitiva sconfitta a opera delle truppe governative. In un contesto prevalentemente cremazionista, le Tigri avevano introdotto per i loro caduti, alla fine degli anni Ottanta, la pratica della sepoltura, la quale aveva condotto all’istituzione dei tuilum illam (lett. “case del sonno”), nei quali erano custoditi i corpi dei guerriglieri. I tuilum illam erano considerati per eccellenza i luoghi della memoria del movimento, sia per le caratteristiche che li accomunavano ai cimiteri di guerra della tradizione euro-americana – erano templi del culto nazionale e luoghi delle cerimonie commemorative – sia perché con l’uguaglianza delle tombe prefiguravano il nucleo di valori proposto per la società futura. In termini assmaniani, i tuilum illam avevano garantito il passaggio dei caduti dalla memoria comunicativa a quella culturale.
Oggi i tuilum illam non esistono più, poiché nel 2009 le truppe governative li hanno sistematicamente distrutti quando sono rientrate in possesso dei territori che erano stati occupati in seguito alla guerriglia. La memoria delle sepolture è attualmente affidata da un lato alle cerimonie che si tengono nella diaspora, dall’altro alla realtà virtuale. Nelle cerimonie commemorative della diaspora i sostenitori delle Tigri hanno sempre dovuto far fronte al problema dell’assenza dei corpi dei caduti e vi hanno ovviato realizzando tombe di plastica presso le quali si svolgono atti cultuali analoghi a quelli che erano previsti presso le tombe vere nel paese d’origine. La memoria dei combattenti veniva e viene mantenuta viva attraverso tali pratiche e altre strategie del ricordo, in particolare per mezzo di attività coreutiche. Per quanto concerne la realtà virtuale, i sostenitori delle LTTE hanno creato, su un sito canadese, una mappa di tutti i tuilum illam ormai scomparsi nella quale vengono mostrate le lapidi dei caduti che vi si trovavano.
Chiude il volume il saggio di Luca Jourdan, che affronta il complesso rapporto tra memoria e politica in Ruanda attraverso l’analisi delle pratiche di costruzione della memoria del genocidio promosse dal governo ruandese negli ultimi vent’anni. Nel 1994 in Ruanda è stato commesso il genocidio più veloce della storia, se rapportiamo il numero delle vittime con il tempo impiegato per ucciderle: in soli tre mesi, infatti, a partire dall’aprile di quell’anno, le milizie filo-hutu dell’Interahamwe massacrarono oltre 800.000 persone, perlopiù tutsi ma anche hutu moderati. A mettere fine al genocidio fu il Rwandan Patriotic Front (RPF), un movimento armato filo-tutsi costituitosi in Uganda, che nell’estate del 1994 riuscì a invadere il paese e a costituire un nuovo governo. Da allora il paese è governato da questo movimento politico-militare costituitosi fra la diaspora tutsi ugandese, che ricorre sistematicamente alla repressione di ogni forma di dissenso politico. Il saggio intende mostrare come le politiche della memoria del genocidio adottate dall’RPF abbiano un duplice scopo: da un lato ambiscono a evitare il ripetersi della tragedia del genocidio, dall’altro servono anche a legittimare le politiche violente e aggressive del governo. Ciò che emerge quindi dal complesso quadro etnografico delineato da Jourdan, è il modo in cui il regime di Kigali, attraverso la promozione di precise politiche della memoria, abbia trasformato il genocidio in un capitale storico-simbolico su cui fondare la propria legittimità politica. Allo stesso tempo il saggio spiega come l’eccessiva “politicizzazione della memoria” abbia finito inevitabilmente per sopprimere ogni lettura alternativa della storia, rischiando di perpetuare e ravvivare, seppure in forma silente, le profonde fratture interne alla società ruandese. In questo ventaglio tematico, si scorgono quindi le tracce di questi conflitti della memoria, gli indizi di battaglie tra memorie collettive e individuali, i silenzi istituzionali, le pratiche di negoziazione della memoria nei processi di trascrizione del passato, i passati scomodi da commemorare, la censura, l’oblio e la ricomposizione di memorie ufficiali in competizione tra loro e i nuovi linguaggi della memoria. Dal punto di vista antropologico, queste tracce rappresentano una fonte preziosa di analisi che contribuisce ad alimentare un dibattito interdisciplinare di lunga data, che ha permesso a questo filone tematico di consolidarsi e che, peraltro, non sembra ancora destinato a esaurirsi. Infine, evidenziare la natura dinamica e conflittuale della memoria, con tutta la sua carica di problematicità, significa mettere in risalto il contributo apportato dalle istituzioni che favoriscono in maniera efficace la promozione di un dialogo interculturale, le possibilità e gli eventuali limiti applicativi della promozione della pace nel mondo globale.